Proviamo a mettere sotto la lente d’ingrandimento l’investimento più importante: investire sui più piccoli.
Spesso si investe sui più piccoli per prendere i soldi dei genitori, dei nonni, degli zii. Lo fa il mondo della comunicazione commerciale. Ovviamente, tale aspetto tocca anche le associazioni, enti sportivi: propongono un buon progetto sportivo-educativo, con l’obiettivo di portare iscritti all’associazione, il cui tesseramento è pagato dai genitori. La sfida sta nell’investimento educativo e nelle ragioni dell’azione associativa.

A noi, educatori del mondo sportivo, spetta tentare di rispondere ad un interrogativo: è un investimento vero quello nello sport educativo per l’infanzia e l’adolescenza?

Da come si evince dall’8° Rapporto CRC, i dati elaborati dall’ISTAT (annuario statistico 2013109) indicano che il 20,4% dei bambini di età compresa tra i 3 e i 5 anni (senza differenza significativa tra i due sessi) pratica con continuità o saltuariamente un’attività sportiva. Esiste, dunque, un potenziale di sviluppo per il settore sportivo-educativo, confermato anche da un aumento significativo delle proposte motorie-sportive, dedicate ai bambini di 3-5 anni, sia da parte delle Federazioni sportive che degli enti di promozione sportiva. Ma molto rimane ancora da fare.

Alla luce di questo, investire nella promozione di attività giovanile potrebbe produrre rendite. Va premesso che tutto quello che viene definito come diritto al child care, vive una difformità estrema tra i Paesi europei. La quasi totale capacità del servizio pubblico dei Paesi scandinavi si contrappone alle difficoltà dei Paesi dell’Europa continentale. Si aggiunga anche una diversa concezione delle politiche di welfare, ed ecco che la riflessione diviene complessa.
Condividere che gioco e sport possano essere strumenti di child care è già un’affermazione significativa. Spesso, lo sport e il gioco entra in campo in fasce di età già avanzate e meno nella prima infanzia.
Le lenti da indossare per osservare meglio, sono proprio quelle dei benefici della pratica sportiva e del gioco, in chiave educativa. Spesso, il gioco e l’attività motorio-sportiva rappresentano strumenti attraverso i quali si creano luoghi per le politiche di conciliazione, con un occhio alla genitorialità.

Il passo successivo è ridisegnare gioco e sport quali strumenti per i metadiritti dei più piccoli, per il loro welfare, per la loro opportunità di entrare in possesso delle condizioni migliori, attraverso le quali conseguire il diritto alla socialità, alla salute, alla crescita, all’educazione. In altre parole: gioco e sport possono essere strumenti nei servizi di cura (nel senso dell’I care), di presa a cuore per l’infanzia e l’adolescenza.

Sicuramente, come dimostrato ampiamente dalla letteratura, gioco e sport contribuiscono allo sviluppo cognitivo e non dei bambini e delle bambine, ma sono indispensabili per i meccanismi di inclusione sociale. Ed oggi è proprio la coesione ad essere al centro della riflessione delle politiche sociali. La pratica sportiva, intesa come esperienza individuale e di gruppo, viene oggi limitata a ¼ dei minori residenti in Italia.
Ecco, allora, che tutto ciò ci porta a rimarcare l’importanza degli investimenti in capitale umano nei primi anni di vita dei bambini che non solo hanno un costo minore rispetto agli investimenti effettuati nelle fasi successive, ma hanno anche rendimenti più elevati. Abbiamo già avuto modo di valutare l’abbattimento di malattie (dal diabete ad alcune tipologie di neoplasie) grazie alla pratica sportiva.

A ciò si aggiunga il carisma educativo che può essere professionalizzato nelle attività ludico-motorie, che spesso valorizza, cosa non secondaria nel nostro Paese, l’occupazione femminile. Si tratta di immaginare come sperimentare nuovi percorsi….sempre al servizio dell’infanzia e dell’adolescenza.

A cura di Stefania Di Martino, CSI